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Capitolo 6 . Il fai-da-te italiano approda sui mass media (1970-1990)

a cura di Avatar photo

Il fai da te nazionale, se da un lato proponeva la lavorazione del legno come un hobby dal grande fascino e dalla straordinaria utilità, dall’altro perseguiva in entrambe le riviste di riferimento, Fai da Te e Far da Sé, la logica anticonsumista del recupero, in aperta contraddizione con quella che avrebbe dovuto essere la creazione di un mercato di produttori e consumatori, di domanda e di offerta.

Allo stesso modo rilevava la difficoltà di contattare e il costo troppo elevato degli artigiani (elettricisti, imbianchini, idraulici, ecc.) proponendo il fai da te come la soluzione del problema.

Non si può dimenticare che dal 1973 al 1984 l’Italia ebbe un tasso di inflazione da record e, ogni anno a due cifre.

Inflazione in Italia (1960-1989)

Anni
Indice %
Anni
Indice %
Anni
Indice %
1960
2,66
1970
5,07
1980
21,14
1961
2,91
1971
4,99
1981
18,70
1962
5,11
1972
5,60
1982
16,40
1963
7,51
1973
10,37
1983
14,90
1964
5,91
1974
19,45
1984
10,60
1965
4,35
1975
17,16
1985
8,60
1966
1,99
1976
16,51
1986
6,10
1967
2,00
1977
18,11
1987
4,60
1968
1,25
1978
12,43
1988
4,90
1969
2,82
1979
17,71
1989
6,60

Alla luce di questa situazione socio-economica e dell’indubbia crescita di attenzione verso il neonato fai da te, si affiancarono ai manager del settore e alla stampa specializzata anche i grandi mass media.

Radio, televisione, quotidiani e settimanali d’opinione e di grande tiratura sfornarono una serie di interventi in linea con una filosofia di approccio al fai da te estremamente tecnica e impegnativa.

Ecco alcuni illustri esempi.

Sul numero del 26 marzo 1984 del settimanale di economia e finanza “Il Mondo” venne pubblicato un intero articolo sull’autocostruzione della casa, con tanto di segnalazione finale di tutti i prodotti edili più adatti, per qualità e semplicità di utilizzo, al pubblico del fai da te.
Negli Stati Uniti, ma anche in Francia e in Germania – spiega il redattore de Il Mondo -, chi desidera farsi da solo la casa può rivolgersi ai supermercati specializzati, dove trova tutto. In Italia il fenomeno non ha ancora raggiunto dimensioni tali da richiedere la creazione di shop-center di questo tipo, anche se il numero di chi decide di improvvisarsi muratore part time è in crescita. Un aiuto proviene dai fabbricanti di materiale per l’edilizia. Da qualche tempo i produttori di mattoni, di impianti elettrici, di apparecchi sanitari hanno introdotto nei propri cataloghi articoli che presentano una importante novità in comune: sono facili da montare o da installare, e sono realizzati di solito con materiali più leggeri … In effetti, una delle maggiori difficoltà che incontra un autocostruttore è l’acquisto dei materiali. I produttori e i grossisti sono infatti abituati a trattare con imprese edili, cooperative, cantieri. Perciò la vendita al dettaglio non è prevista. Questo è uno dei motivi per cui gli esperti consigliano l’autocostruzione solo a gruppi di persone impegnati a fabbricare due o più case monofamiliari. E se si vuol fare proprio da soli ci si deve preparare ad un duro training. Costruirsi una casa è infatti tutt’altro che facile e in diverse operazioni è meglio farsi affiancare da un esperto. I risultati sono comunque di solito più che buoni. «Le abitazioni autocostruite sono spesso fabbricate meglio – dice Valerio Travi, architetto esperto in questo campo – perché si utilizzano materiali più costosi.»”.

Tre mesi dopo, il 24 giugno 1984, si occupava di bricolage e più in generale di economia domestica anche Il Manifesto, quotidiano comunista, con un articolo di Marco d’Eramo.

Il taglio era ovviamente straordinariamente diverso rispetto a quello che abbiamo letto su Il Mondo, giornale per manager e imprenditori, però il bricolage esce anche in questo caso alla grande.

La presenza di questi settori ignorati – sottolinea Marco d’Eramo nella terza colonna del suo articolo – spiega (in parte) anche l’incapacità che ormai caratterizza gli economisti di prevedere alcunché. Anzi, ormai si può praticare con le previsioni degli economisti quell’abitudine che ci aveva inculcato la meteorologia: di usarle al contrario, come ciò che sicuramente non avverrà. Quest’incapacità a prevedere è d’altronde a lungo analizzata da Lester Thurow nel suo ultimo libro Dangerous Currents. Ma la cecità rispetto all’enorme importanza dell’economia domestica non è propria solo agli economisti. Per esempio, anche nel nostro giornale, quando abbiamo pensato di dedicare una pagina all’economia domestica ci è stato obbiettato: volete fare una pagina “domenicale” e cioè “futile”. Il solo fatto che un settore coinvolga tutti (scagli la pietra chi non ha mai usato un trapano in vita sua), non rende questo settore automaticamente frivolo e fatuo. Anzi, fornisce alcune risposte tremendamente serie e pone quesiti altrettanto gravi.

Intanto – prosegue Marco d’Eramo – ci spiega l’inaffondabilità dell’istituto familiare, anche dal punto di vista economico. Fornisce cioè un’illuminazione allo stupore ripetuto e ribollito, di fronte al riflusso nella coppia, dopo le spinte di dieci anni fa che tendevano a far emancipare i rapporti affettivi dalla costituzione familiare e dal rapporto di coppia. Se il lavoro domestico fornisce ancora il 40% del prodotto lordo allargato (Pil + lavoro domestico) vuol dire che la famiglia assume funzioni e servizi che non sono ancora sostituibili dal mercato. E non sono funzioni da poco … In più, con il ritorno al liberismo, anche il mito della proprietà prende vigore. Basti pensare a quanti della nuova sinistra si sono comprati recentemente una casa, quando qualche anno fa sarebbero stati contrari, non solo per ragioni politiche, ma soprattutto per scelte di vita, per comportamento … Con l’aliquota progressiva, alcuni lavoratori a reddito medio-alto preferiscono non guadagnare all’esterno (e quindi mantenere bassa la propria aliquota fiscale), ma non spendere a casa propria nei lavori domestici, nel ridipingere le pareti, riparare mobili, ecc. L’uso del do it yourself a scopo di risparmio fiscale sta dilagando negli Stati Uniti. Il che provoca un rafforzamento dell’istituto familiare nei ceti medio-alti, proprio quei ceti che sono trainanti ideologicamente e sono considerati come un esempio, un modello da imitare nelle aspirazioni di mobilità sociale (verso l’alto). Infine vi è un effetto di feed back, di ritorno: il ritorno alla famiglia rafforza il suo ruolo economico, rende meno doloroso il declino dello Stato assistenziale, riproduce il mito della proprietà.

Sul tema si pronunciò anche Giampaolo Fabris dalle pagine del numero del 13 gennaio 1985 de L’Espresso.

Nato a Livorno nel 1938, Fabris era già a quel tempo considerato come uno dei massimi esperti delle tendenze e degli orientamenti del consumo e del consumatore.

Oggi Giampaolo Fabris è professore ordinario di Sociologia dei Consumi all’Università IULM di Milano e presidente del corso di laurea in Relazioni Pubbliche, oltre a svolgere attività di consulenza per grandi gruppi industriali italiani, aziende multinazionali e governi stranieri e di collaborazione con molti quotidiani e riviste italiane e straniere.

In un momento in cui i mass media parlavano del bricolage come di un fenomeno di massa con ulteriori e ampie possibilità di crescita e di penetrazione della popolazione italiana, Giampaolo Fabris, intelligenza sopraffina, aveva evidentemente capito già allora che per poter parlare di manualità come fenomeno di massa non ci si poteva limitare al fai da te, identificato con la lavorazione del legno e i grandi lavori di manutenzione della casa, ma bisognava ampliare lo spettro di riferimento.

Fabris quindi supera i concetti e le definizioni di bricolage e fai  da te e parla di “prosumerismo“.

Prosumer, prosumerismo: ancora una locuzione importata d’Oltreoceano ed italianizzata con poca fantasia. Questa volta – spiega Giampaolo Fabris – l’anglicismo non è gratuito e serve a colmare una oggettiva lacuna nel nostro vocabolario per definire un fenomeno che ha già un suo importante spessore economico e sociale. Oggi, infatti, assistiamo all’emergere di una figura nuova, il prosumer appunto, che unisce in se il ruolo di produttore e consumatore (prosumer nasce da producer ed è un neologismo anche nella sua lingua d’origine e si forma dall’incontro tra producer e consumer). Le prime avvisaglie del prosumerismo le registriamo con il diffondersi prepotente della filosofia del do it yourself (il fai da e) che si è registrato in Italia durante tutti gli anni settanta. Si trattava di una tendenza di dimensioni contenute, limitata in genere ai piccoli interventi domestici, e stimolata soprattutto dal fatto che gli artigiani si diradano sempre di più e quei pochi sulla piazza chiedono compensi vertiginosi.

Il prosumerismo si sviluppa ora su basi assai diverse, sia per i settori in cui si manifesta, sia per i soggetti che coinvolge (sempre più numerosi e non riconducibili agli schemi della laboriosità manuale), sia per le motivazioni che lo giustificano. Con il prosumerismo ciascuno torna a fare il produttore di tutta una serie di beni destinati al suo personale consumo, sottraendo una quantità di scelte ai tradizionali circuiti fra produzione e mercato. Così si può calcolare che oggi oltre un quinto della popolazione italiana sia interessata a questo fenomeno, in una gamma di settori già molto ampia e destinata a dilatarsi ulteriormente in futuro. Si torna a fare le conserve e le marmellate in casa e non soltanto per rendere omaggio ad uno dei più antichi impegni del lavoro domestico. Lo stesso discorso si può fare per la pasta (e alcune industrie italiane stanno costruendo piccole fortune sulle macchine per fare la pasta in casa). Accanto alla pasta si tornano a produrre artigianalmente numerosi alimenti – dai gelati ai surgelati – la cui produzione in passato era tutta industriale. Il mercato dei cibi per bambini (si pensi agli omogeneizzati o ai succhi di frutta per esempio) trova ora un’accesa concorrenza in centrifughe, frullatori, tritatutto ed altri elettrodomestici, sempre più usati in casa per preparare alimenti per i propri figli. E si va ingrossando l’esercito di quanti trasformano il giardino (o parti del giardino) in orto, o coltivando ortaggi e frutta sul terrazzo di casa.

Non è soltanto nel settore dell’alimentazione che troviamo un’ampia applicazione dl prosumerismo – prosegue Giampaolo Fabris -. A parte le piccole riparazioni domestiche per le quali non ci si rivolge più a idraulici, elettricisti e così via, il prosumer nostrano, a volte con senso pionieristico, si avventura nel tinteggiare i muri, nello stendere e tagliare moquette; e, sempre da solo, costruisce mobili – dalla libreria, al letto, all’armadio – utilizzando kit di prodotti semilavorati da completare o semplicemente da assemblare a seconda delle proprie esigenze.

La medesima logica di approccio, Giampaolo Fabris la descrive anche riguardo al settore dell’abbigliamento, con la riscoperta del cucito, del ricamo e del lavoro a maglia e a quello della cura della persona, con permanenti e tinture per capelli fatte direttamente nel bagno di casa con l’aiuto di un’amica.

Mentre fuori casa l’automobilista tende a sostituirsi al meccanico per alcune riparazioni della propria vettura.

Infine, Giampaolo Fabris chiude il suo articolo rispondendo ad una domanda estremamente importante.

Quali sono le motivazioni che accompagnano questa nuova figura sociale, quali bisogni il prosumer soddisfa? Certamente quelli pratici ed economici, che pure l’hanno originato, non sono i soli e, forse, nemmeno i più importanti. L’esigenza di una produzione specifica per le proprie necessità che sono sempre, in qualche modo, diverse da quelle degli altri, costituisce una delle principali ragioni del prosumerismo. Smentendo una solida tradizione sociologica che vedeva nella crescente massificazione dei consumi e degli stili di vita lo sbocco obbligato delle società industriali avanzate, il consumatore chiede ora con insistenza prodotti e servizi che riflettano la sua personalità, nei quali sappia riconoscersi. Perciò comincia a guardare con diffidenza l’omologazione dei propri bisogni a presunti standard medi; e comincia a manifestare sospetti nei confronti di prodotti o marche di massa. Il passo successivo, quasi obbligatorio è quello di trasformarsi in piccolo produttore per garantirsi una migliore soddisfazione delle proprie esigenze. Ancora: il prosumerismo esalta la creatività non più come appannaggio esclusivo di pochi artisti, ma come una potenzialità presente in ciascuno di noi, da coltivare e arricchire. Si tratta di inventare soluzioni nuove, originali, del tutto coerenti e in sintonia con i propri gusti, piuttosto che recepire passivamente quelle standardizzate dalla produzione industriale. Inoltre il prosumer trova nel recupero della manualità un incentivo a un ruolo più attivo come produttore. Produrre da soli i beni significa, infatti, esprimere anche una manualità altrimenti inespressa. E l’autoproduzione, quando questa non si identifica con il lavoro, può diventare in qualche modo anche un gioco. Un divertimento per adulti che ci permette di esprimere come produttori quei contenuti di piacere che sembravano aver divorziato per sempre dall’homo faber.

Un mese dopo, sul numero del 17 febbraio 1985, L’Espresso ritorna sul bricolage con un supplemento che francamente lascia in bocca un sapore più commerciale che giornalistico.

Il titolo è “Costruisci, ripara, arredati la casa”.

L’autore, Gabriele Dossena, esaspera il concetto di fai da te, che a quel tempo aveva già fin troppi contenuti tecnici e specialistici, parlando di costruzione della casa, della barca e addirittura di un aereo, pur se ultra leggero.

E’ molto probabile che la penna del buon Dossena sia stata guidata dall’ufficio marketing della testata, tuttavia quello che emerge è un vero pasticcio in cui da un lato si sostiene che il bricolage è ormai una pratica diffusa nella popolazione italiana e dall’altro racconta di interventi che solo una piccola, piccolissima nicchia di persone potrebbe essere in grado di eseguire (naturalmente ad ogni intervento corrisponde l’indicazione di un prodotto e di un’azienda). Intendiamoci, questo esempio che riporto e che coinvolge L’Espresso è davvero solo un esempio della dannosa contaminazione che alcune aziende del settore hanno preteso dagli uffici marketing e commerciali di tutte le testate, specializzate o di massa, affinché fosse promossa un’idea e una diffusione del fai da te che in realtà non esisteva.

Quello che leggerete nelle prossime righe, anche se a tratti vi sembrerà incredibile, è esattamente quanto riportato nell’articolo di Gabriele Dossena, ma, credetemi, se un settimanale prestigioso, professionale e accreditato come L’Espresso è arrivato a pubblicare contenuti di siffatta specie, è assolutamente lecito pensare (perché così fu realmente in quegli anni) che gran parte della stampa nazionale sostenne, sull’onda della speranza di una pioggia di contratti pubblicitari da parte delle aziende del settore, un concetto di bricolage che i fatti, il tempo e anche il buon senso ha poi ridimensionato, o per meglio dire rivoluzionato.

Prima si diceva bricolage – spiega Gabriele Dossena -, poi do it yourself che successivamente è stato tradotto in fai da te. Oggi si parla di prosumersimo … Il concetto rimane però sempre più o meno lo stesso: l’arte di arrangiarsi con le proprie mani per costruire oggetti o fare piccole riparazioni in casa, riscoprendo la creatività manuale e risparmiando nel contempo denaro. Un italiano su cinque, secondo una recente indagine Doxa, appartiene a questa categoria di persone. E soltanto nell’area milanese sono stati contati un milione e mezzo di bricoleur, o se si preferisce di appassionati al fai da te.”

Di fatto – continua più avanti Gabriele Dossena – i più attenti osservatori del fai da te, che poi sono i fabbricanti di linee speciali di prodotti, l’Italia deve ancora scontare 30-40 anni di ritardo rispetto agli altri Paesi più evoluti. In pratica quello che oggi si sta riscontrando in casa nostra, in Inghilterra o in Scandinavia è una tradizione di sempre. Ma l’industria segue attentamente questo fenomeno, che comunque ha già raggiunto buoni livelli, con la speranza non tanto segreta che si avverino le previsioni di un vero e proprio boom. Tanto che, tranne rare eccezioni, oggi l’industria offre praticamente di tutto nella versione kit di montaggio. E tutto o quasi è possibile, costruire con le proprie mani, o semplicemente assemblare seguendo disegni e istruzioni dettagliatissime. Persino gli aerei, gli “ultralight”, in grado di decollare in uno spazio di 50 metri, si possono comprare in scatola di montaggio. Ecco allora qualche proposta, tra le più interessanti, offerta da questo vivacissimo mercato.”

Il seguito dell’articolo sono suggerimenti, corredati da precise indicazioni sulle aziende produttrici, su come costruirsi la casa (… costruirsi la casa è comunque molto più semplice di quanto si possa immaginare: senza dubbio è più complesso, al confronto, riuscire ad ottenere permessi e licenze, pagando i relativi balzelli …), come farsi la barca (… ci si può rivolgere ad uno specialista per comprare un progetto, completo di tutti i pezzi necessari nelle diverse misure. E successivamente si passa all’acquisto dei vari pezzi di legno, dell’albero e delle vele, e poi al loro montaggio…), come costruirsi un aereo (… disponibile in kit di montaggio: si chiama “ultralight” ed è in pratica un’ala da deltaplano alla quale è stato applicato un carrello con un motore predisposto per il trasporto del pilota ed eventualmente anche di un secondo passeggero …), come arredare la casa (… per gli amanti del vero far da sé comprare mobili in scatola di montaggio suona un po’ come una bestemmia. Per l’industria che questi mobili li produce, è una buona opportunità per poter offrire sul mercato articoli a prezzi competitivi. Quel che è certo è che si tratta della forma di bricolage più diffusa in Italia …), come costruirsi una bicicletta, una chitarra e, infine come imbiancare una parete. Già perché “far da sé – spiega Dossena a chiusura del suo articolo – non significa necessariamente costruire qualcosa a tutti i costi. Al contrario: L’aspetto riguardante la manutenzione e l’abbellimento della casa, della barca o dell’automobile, è senza dubbio quello che attira le maggiori schiere di bricoleur.”

Era evidente che questa impostazione, troppo maschilista e con troppo poco contenuto culturale, stilistico e di immagine, doveva prima o poi modificarsi.

La seconda metà degli anni ’80 fu dominata dalla moda, dall’immagine, dalle televisioni private, dalla vita notturna, dalla “Milano da bere“, dagli eventi culturali e dalle feste mondane.

La casa era un bene importante, oltre il 70% degli italiani erano proprietari della loro abitazione, ma doveva rientrare nelle logiche della nuova società dell’immagine.

Doveva essere bella da mostrare, doveva contenere delle preziosità che giustificassero l’invito degli amici. Si inizia a parlare di design e di domotica e l’oggetto autoprodotto sulla base delle tecniche del bricolage rientra in questa tendenza solo se espressione di una ricerca culturale che ha poi portato alla creazione o costruzione di un manufatto per qualche verso prezioso (nel materiale, nella lavorazione, nella scelta dei colori o quant’altro).

Anche in questo caso deve in sostanza essere un oggetto da mostrare, indipendentemente dal fatto che sia utile.

Di lì a qualche anno, comunque dai primi anni ’90, si comincerà a parlare di “bricolage creativo“, comprendendo finalmente, per la prima volta anche il target femminile. Naturalmente i lavori di manutenzione e di riparazione della casa non scomparvero, ma concettualmente entrarono nell’alea delle necessità e non dell’hobby.

La necessità la si affronta perché si deve, l’hobby lo si pratica se si è affetti da una passione.

Entrambe le situazioni devono portare ad una gratificazione dell’impegno prestato, ma l’approccio è ovviamente sostanzialmente diverso.

Era il 9 aprile 1989 quando Luca Goldoni, dalla prima pagina del Corriere della Sera ritornava sul tema del fai da te con toni sostanzialmente diversi rispetto a quelli usati nel 1974 nel suo libro “E’ successo qualcosa?“.

Il titolo era: “Qualcuno mi spieghi come usare la sveglia” e l’occhiello: “Dall’era del fai da te a quella della lotta con le istruzioni per gli elettrodomestici”.

La gloriosa epoca del fai da te è forse al tramonto – esordiva Luca Goldoni –: lo deduco dalle lettere di molti lettori, accorate confessioni di resa di fronte al gergo delle istruzioni per l’uso. Non mi riferisco ovviamente alla categoria dei faidateisti puri, agli intellettuali sdilinguiti per la riscoperta della manualità, agli hobbisti hard che tengono esposti gli utensili come una collezione di pipe e passano il fine settimana in garage ricavando un tosaerba dal motore della vecchia lavatrice.

E’ evidente che la simpatia per gli hobbisti del bricolage era del tutto svanita in Luca Goldoni, il quale peraltro esprimeva una tendenza di pensiero del momento.

Il faidateista riveste sostanzialmente l’immagine dello sfigato (non in senso economico ma intellettuale) che raggiunge il proprio paradiso orgasmico solo quando fa  penetrare una vite zincata a testa esagonale in un asse di ciliegio o in un supporto di alluminio usando il suo giravite (“cacciavite” non è il termine corretto) in acciaio chrom-vanadium-molibdeno-extra con finitura cromata e punta nera.

Non era una bella immagine, ma era molto diffusa ed era la conseguenza di una filosofia di approccio al fai da te troppo tecnica e specialistica, riservata a pochi, veri appassionati.

Una minoranza che non poteva non essere oggetto dello scherno di una maggioranza tendenzialmente inetta nei lavori manuali anche più semplici.

Tuttavia i numeri in un mercato si fanno con la maggioranza dei consumatori e questo la grande distribuzione specializzata che in quegli anni stava nascendo, lo sapeva molto bene.

Alludo – proseguiva Luca Goldoni – alla più mite categoria di cittadini che hanno acquistato il videoregistratore, il battitappeto, un elettrodomestico qualsiasi e vorrebbero farli funzionare senza telefonare allo specialista. Un po’ per amor proprio e un po’ per silenziosa protesta contro questi tecnici, ormai avvicinabili solo per appuntamento e contro i loro conti assurti a onorari.”

C’è un cassetto della mia scrivania – raccontava poi Goldoni – adibito a discarica di manuali d’uso. Contengono tutto ciò che avrei voluto sapere: le istruzioni in italiano – quando si ha la fortuna di rinvenirle dopo quelle in inglese, francese, spagnolo, norvegese e in ideogrammi giapponesi – presuppongono nel cliente la frequentazione almeno di un biennio di ingegneria. La spia di registrazione dello stereo per esempio è chiamata “indicatore dei picchi salienti”, la rotellina per rendere più nitida l’immagine è il “comando di sintonia fine”, persino il pulsante diventa un “selettore manuale”. Non si capisce perché l’utente non venga definito elemento a propulsione cardiaca. I fabbricanti più cinici fanno precedere le istruzioni dal neretto: non potete sbagliare. I più pragmatici consigliano come prima istruzione: rivolgetevi al vostro tecnico di fiducia. Il vero manuale d’uso sono le Pagine Gialle. Un mio amico langue da due mesi sulle istruzioni di un ventilatore: capisci, mi dice, un ventilatore, non un acceleratore di neutroni; è umiliante ricorrere all’elettricista, basterebbe un interprete. E’ evidente che è più facile capire il funzionamento di un cavatappi che quello di una radiosveglia. Ma esiste un tipo di linguaggio e di esemplificazione grafica in grado di far capire la legge di gravità anche ai bambini delle elementari. Bene, non sono riuscito a sintonizzare questa sveglia col giornale radio delle 7: si accende sempre con il notturno dall’Italia. Per puntiglio non sono ricorso al tecnico, l’ho avvolta in uno straccio, chiusa in una scatola da scarpe, isolata in un armadietto e lì dentro trasmette tutte le notti. Quando avrò tempo ristudierò il manuale, ma mi chiedo perché in emergenza il pilota di un jet può premere il pulsante che lo eietta e su questa radiosveglia non c’è un bottone con scritto stop.”

La filosofia di queste istruzioni – conclude Luca Goldoni – che non istruiscono, sembra chiara: l’autosufficienza dell’utente rappresenta, a lungo termine, una minaccia per la corporazione dei tecnici. E i fabbricanti sanno che spesso sono loro a consigliare prodotti e marche. Così con le sciarade dell'”enigmistica d’uso” salvano capra e cavoli: La morale però è che il fai da te sta ridiventando un lascia fare a loro.

E’ evidente che non è esattamente così.

E’ noto l’impegno e gli investimenti delle aziende e della distribuzione del fai da te a favore della didattica, proprio per semplificare la vita e aiutare le conoscenze del consumatore, però ho voluto riportare interamente questo articolo perché disegna molto bene lo spirito dell’epoca (fine anni ’80) nei confronti del fai da te da un lato e dell’entrata in casa di elettrodomestici sempre più raffinati, resi possibili dalla crescita di quell’elettronica che oggi ci consente di parlare di domotica.

In questo senso Luca Goldoni non teneva evidentemente conto che, se all’inizio del secolo scorso, una famiglia di quattro persone mediamente agiata era  circondata da 150 a 200 elementi tutt’al più, compresi le stoviglie e i vestiti; oggi, invece, dispone di un sistema di circa 2500-3000 oggetti, compresi gli elettrodomestici e gli oggetti voluttuari, esclusi libri e cassette.

Attualmente, si stima a 20.000 il numero di oggetti con cui un individuo può venire in contatto nel corso della sua vita.

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