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Basta borse di plastica. Forse…

a cura di Avatar photo

Dopo che la ministro all’ambiente, Stefania Prestigiacomo ha ottenuto che venisse cancellata la proroga di un anno, dal primo gennaio 2011 è entrato in vigore il divieto di utilizzare borse di plastica non riciclabili.

Naturalmente, pur non precisando alcun limite di tempo, le borse di plastica attualmente giacenti nei magazzini potranno essere utilizzate per contenere la spesa dei consumatori fino all’esaurimento, con l’obbligo però che vengano distribuite gratuitamente.

Della messa al bando delle borse di plastica non biodegradabili se ne parla da qualche anno, in particolare da quando nella Finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, nr. 296) vennero introdotti, nell’articolo 1, due commi a favore dell’ambiente in particolare il comma 1129 che prevedeva “a partire dall’anno 2007, un programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione della commercializzazione di sacchi per l’asporto delle merci che, secondo i criteri fissati dalla normativa comunitaria e delle norme tecniche approvate a livello comunitario, non risultino biodegradabili.

Per il programma sperimentale citato fu stanziato un miliardo di euro, tuttavia non ci risulta che in questi anni sia stata fatta alcuna “sperimentazione”.

Lo stop ai sacchetti di plastica per la spesa è da molti considerato una scelta di civiltà e di rispetto dell’ambiente.

Ricordiamo che borse e bottiglie di plastica sono al secondo posto in quanto fonte di deturpamento e inquinamento originato dall’uomo nel Mediterraneo (al primo posto, potrà sembrare incredibile, ma ci sono i mozziconi di sigaretta che da soli rappresentano il 27% della spazzatura abbandonata in mare).

Inoltre bisogna considerare che gli italiani con circa 20 miliardi di sacchetti all’anno, sono tra i massimi consumatori di sacchetti di plastica al mondo.

Tuttavia qualche perplessità questa legge tutta italiana la suscita.

Già, tutta italiana perché in realtà non esiste una legge europea che tratti questo tema specifico.

Esiste solamente una norma tecnica del Comitato Europeo di Normazione (CEN), la EN 13432, che definisce i “Requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione”. Il problema è che, come tutte le norme tecniche, anche questa non ha carattere di obbligatorietà.

Tant’è che anche la Francia emanò qualche anno fa una legge del tutto simile a quella italiana di cui stiamo parlando, ma, a fronte di un ricorso europeo dovette ritirarla.

Lo stesso ricorso partirà anche dalle aziende italiane della plastica? A sentire la Federazione Gommaplastica di Confindustria sembra molto probabile.

Non solo, anche la European Plastic Converters (EuPC), federazione europea delle aziende trasformatrici di materie plastiche, ha preso duramente posizione dichiarando che

questo provvedimento dimostra che il Governo Italiano sta violando la legislazione europea, e in particolar modo la Direttiva 62/94/CE sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio, poiché non ci sono sufficienti ragioni scientifiche per la messa al bando. L’iniziativa del governo si presenta poco lungimirante e non tiene in considerazione né l’esistenza delle leggi dell’Unione né il fatto che i tradizionali imballaggi in plastica siano riciclabili e riutilizzabili”.

La EuPC ha già presentato un reclamo alla Commissione Europea e ha manifestato tutte le sue intenzioni di contrastare il provvedimento sul piano legale.

Oltre ai rischi legati al o ai ricorsi che perverranno in Europa, questa legge presenta anche delle anomalie tutte tipicamente italiane, infatti, come rileva il quotidiano Il Sole 24 Ore, nella normativa non ci sono decreti applicativi e norme tecniche, in più non sono previste sanzioni per chi dovesse continuare a commerciare i vecchi sacchetti di plastica.

E’ vera tutela dell’ambiente?

Siamo davvero sicuri che la scelta di sostituire i sacchetti di plastica tradizionale con quelli in bioplastica sia ecologicamente apprezzabile?

Vale la pena di fare qualche riflessione in più.

Fermo restando che il disastro provocato dai sacchetti di plastica nei mari è fin troppo evidente, dobbiamo considerare che i sacchetti biodegradabili di amido di mais (Mater-Bi), di patate o girasole nascono da risorse di origine agricola.

Sul calcolo di quanto terreno occorrerebbe per coltivare il mais necessario e sufficiente per produrre i 20 miliardi di shopper attualmente consumati in Italia in bioplastica si sprecano i numeri.

A fronte di alcuni produttori che parlano di centinaia di migliaia di ettari coltivati a mais, esiste la prudenziale stima di Legambiente che sostiene che per produrre 10 miliardi di shopper occorrerebbero 30 mila ettari, quindi per 20 miliardi ne servirebbero 60 mila. In ogni caso non poco.

Anzi sufficiente per consentire ai produttori di shopper di sottolineare come attualmente l’offerta di biopolimeri non sia in grado di soddisfare una domanda così ampia: in una recente intervista Enrico Chialchia, direttore di Unionplast, ha dichiarato che “al momento non c’è una sufficiente disponibilità di biopolimeri. Produrre queste bioresine non è come stampare un sacchetto, non è certo alla portata di piccoli produttori. Non è un caso se al mondo possiamo contare al massimo su una decina di aziende produttrici di biopolimeri, e si tratta di grandi aziende. La stessa Novamont (azienda italiana che produce e distribuisce bioplastica in tutto il mondo – ndr), che ha dato ampie rassicurazioni sulla propria disponibilità, rassicurazioni che io ho apprezzato, non può però certamente rifornire un intero mercato nazionale”.

La Novamont nel 2009 ha prodotto 40 mila tonnellate di plastica biodegradabile, l’impegno è di aumentare la propria capacità produttiva da 80 a 130 mila tonnellate l’anno: la necessità attuale del mercato italiano sarebbe di 200 mila tonnellate.

Da un punto di vista ambientale bisogna poi introdurre un’altra considerazione: occupare estensioni di territorio così importanti per farne shopper monouso (al più riusabili una volta per i rifiuti organici) significherà un grande impiego di acqua, pesticidi, fertilizzanti di sintesi, che, come è noto, inquinano le falde e comportano l’emissione di gas serra.

Conclusioni

A fronte di quanto abbiamo riportato la sensazione è che in un momento in cui il riuso, il riutilizzo e il riciclo sono sempre di più parole d’ordine importanti, limitare il problema dello shopper a una questione di materiale è probabilmente fuorviante rispetto ad una concreta soluzione del disastro ecologico che abbiamo più volte sottolineato.

Il problema vero è legato alla cultura e al livello di civiltà, entrambe purtroppo sempre di più sotto scacco nel nostro Paese.

E’ infatti evidente che se l’uso dei vecchi sacchetti di plastica fosse più consapevole e quindi, per esempio, se fossero riutilizzati invece che consumati nel solo tragitto dal negozio a casa, il problema avrebbe dimensioni diverse.

Usare anche solo due volte lo stesso sacchetto significherebbe passare dagli attuali 20 miliardi a 10 miliardi di shopper consumati all’anno, diventando così da “anima nera” europea, dove il consumo è mediamente di circa 12 miliardi, a Paese virtuoso.

Allo stesso modo se i sacchetti di plastica fossero gestiti in maniera civile e non abbandonati ovunque capiti, anche il problema strettamente ecologico sarebbe ridimensionato. Ma così non è.

Noi di Bricoliamo da tempo sosteniamo il movimento e le iniziative di Porta la Sporta, proprio perché siamo convinti che la vera soluzione sia nel riutilizzo delle cose e che il nemico vero sia la cultura dell’usa e getta.

In Irlanda, già nel 2002, hanno applicato una tassa su ogni sacchetto di plastica di ogni genere: il consumo è calato in pochi anni del 90%. Uscire di casa con la propria borsa o carrellino della spesa, esattamente come si faceva solo qualche decina d’anni fa (tutto sommato il sacchetto di plastica è stato inventato nel 1965), è la vera soluzione e, se ci pensiamo bene non è così impegnativa: è una questione di abitudine.

Fortunatamente, al di là delle attività istituzionali dei governi, sono sempre di più le insegne della grande distribuzione che si orientano in questo senso.

Nel nostro settore si segnalano in particolare le esperienze di Ikea e di Leroy Merlin che hanno bandito autonomamente i sacchetti usa e getta, sostituendoli con borse riutilizzabili.

Cambiare è sempre faticoso e difficile, ma in questo caso è necessario.

Siamo convinti che un grande ruolo su questo tema specifico potrà averlo la distribuzione, quella grande ma anche, anzi soprattutto quella piccola, assai più diffusa e avvantaggiata da un rapporto personale e diretto con i propri clienti.

Speriamo.

Nel frattempo vi terremo informati sugli sviluppi della legge anti shopper del ministro Prestigiacomo.

Gennaio 2011

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