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QUELLO CHE SEGUE È IL CAPITOLO 17 DEL LIBRO “TIME OUT: UN MOMENTO DI RIFLESSIONE SULLA TV SATELLITARE, INTERNET E IL DIGITALE TERRESTRE TRA TECNOLOGIA, POLITICA E CONTENUTI”, SCRITTO DA MAURO MILANI NEL 2005.

Se la pubblicità sulle televisioni satellitari è sotto dimensionata rispetto al valore accertato del medium, internet ha una penetrazione nel mercato pubblicitario, non solo in Italia ma nell’intera Europa, più o meno sugli stessi livelli.

Un dato che, se si considera la presenza del computer e di internet nelle famiglie, rende la rete ancora più penalizzata rispetto al satellite. I numeri indicano, per quanto riguarda l’Italia, un fatturato annuo di pubblicità venduta intorno ai 100 milioni di euro, con una crescita nel 2003 di circa il 10% e una stima per il 2004 forse ancora superiore.

Un trend positivo che porta gli operatori a definire il comparto un “malato in lenta fase di guarigione“. La natura della malattia è, come ho già avuto modo di sottolineare, insita nella profonda delusione provata da imprenditori e pianificatori nel confronti del web dopo l’esplosione della bolla speculativa nei primissimi anni del nuovo millennio.

In particolare il 2002 quando, anche sul fronte pubblicitario, si è registrata una significativa diserzione dalla rete. Però, per quella che è la mia esperienza di content manager (che non significa “manager contento”, bensì responsabile dei contenuti. Quello che nella carta stampata si chiamerebbe direttore editoriale, ma nell’internet nostrano, come spiegherò più avanti parlando di contenuti, la parola “editoria” è bandita), devo dire che la delusione innegabile, provocata dai primi anni di gestione dissennata della rete, non basta per una completa diagnosi della malattia.

Infatti, quello che è lo straordinario vantaggio del web, cioè la navigazione semplice e veloce, secondo la quale con un semplice click del mouse si può passare da un sito all’altro, è stato vissuto come un grande problema. Vi spiego perché.

Nella tradizionale pubblicità su carta stampata, televisione, radio e affissioni dove il messaggio riguarda il prodotto o il servizio offerto dall’azienda, l’esortazione è quella che prevede la visita del consumatore in un negozio, un supermercato, un centro specializzato o quant’altro. In questo caso la creatività è fondamentale perché nei pochi secondi di uno spot o in una sola pagina tabellare deve riuscire a stimolare la necessità o la curiosità sul prodotto tanto da indurre il consumatore a recarsi nel punto vendita (“corri a comprarlo“).

In internet non è così, perché il banner, cioè il messaggio pubblicitario ha esclusivamente lo scopo di esortare un click sullo stesso, in modo da accompagnare il consumatore sul proprio sito aziendale. Sarà poi nel sito che l’azienda dovrà giocarsi la partita con il consumatore risolvendo tutte le sue domande e convincendolo all’acquisto.

E’ evidentemente un approccio completamente diverso che necessità di idee creative completamente diverse: nel bunner non è necessario essere esaustivi, si può addirittura omettere il prodotto o il marchio dell’azienda, quello che conta è riuscire a suscitare un livello di curiosità sufficiente e necessario a portare il consumatore a spostare la freccetta del mouse sul banner e fare click.

La creatività deve avere un contenuto semplice e immediato. Bisogna tenere conto che il mouse è il corrispondente del telecomando per la TV e della manopola della sintonia per la radio. Parole come “gratis”, “regalo”, “vittoria”, “centro”, “sconti” o immagini come una bella donna discinta, per il target maschile, o un bell’uomo con la maschera da Zorro, per il target femminile, sono tutti elementi che possono indurre il consumatore a cliccare perché incuriosito.

Quando i settimanali di grande tiratura mettono una bella donna con il seno scoperto in copertina vendono di più, sempre. Questo perché la stupida aspettativa dei maschi è di trovare nelle pagine interne chissà che cosa. Aspettativa che viene ovviamente sempre delusa, però ogni volta ricomprano il giornale, o meglio ricomprano la copertina.

Lo studio creativo del banner, che io ho banalizzato nel tentativo di raggiungere la massima chiarezza, è comunque molto importante anche perché ormai il pubblico di internet sa quello che cerca, sa come cercarlo ed è consapevole del valore che ha il proprio click o ancora di più i propri dati anagrafici (alludo alla famosa “profilazione” dell’utente).

Voglio chiarire ulteriormente il concetto perché è importante. Esistono tre unità di misura (usate dalle società specializzate nel testare i comportamenti degli utenti nel web) per inquadrare l’efficacia di una campagna banner: il numero di “impression“, cioè le singole visualizzazioni sulla pagina di un banner (se mettiamo il nostro banner sulla home page di repubblica.it si presuppone che ogni utente che si collega a tale home page veda il nostro banner); il numero di “click through“, cioè i singoli click che gli utenti fanno sul banner per raggiungere il nostro sito e il numero di “click through rate“, che rappresenta chi effettivamente arriva almeno a vedere l’home page del nostro sito o comunque il messaggio collegato al banner.

La differenza tra click through e click trough rate sta nel fatto che dal momento in cui l’utente clicca sul banner (click through) al momento in cui appare sul suo schermo la pagina desiderata (click through rate) intercorre del tempo, durante il quale una percentuale di persone decidono di non aspettare e tornano alla pagina precedente o chiudono il collegamento prima di aver visto la pagina collegata al banner.

Ovviamente più è immediata l’apertura della pagina e meno utenti si perdono (per questo le home page dei siti devono essere “leggere”).

Ebbene le indagini più recenti ci indicano che il pubblico di internet è passato da una media del 10% di click through (un click ogni 10 impression) del 2001 ad una media dello 0,5% nel 2004.

Nei primi anni di internet esisteva la curiosità e l’inesperienza, oggi l’utente internet è consapevole e clicca solo dove ritiene opportuno o interessante cliccare. Questo non significa, come dicono alcuni operatori “la fine del banner”, bensì significa dover necessariamente affinare professionalità e creatività nella costruzione del banner. La quale mi pare una tendenza doverosa per un mercato che vuole crescere, se vuole crescere.

Un’ultima avvertenza per i meno esperti di pianificazione internet. Le impression sono l’unità di misura per la vendita della pubblicità su internet (un po’ come il modulo del quotidiano), cioè alla concessionaria noi avremo la possibilità di acquistare un determinato numero di impression e il nostro banner rimarrà sulla pagina che abbiamo scelto (oppure può essere inserito in una rotazione che lo porta su diverse pagine di nostro gradimento) tutto il tempo necessario per raggiungere il numero di impression acquistato.

Se però noi acquistiamo 1.000 impression non significa che raggiungiamo 1.000 persone perché ogni persona può determinare più impression navigando in un sito o portale e visitando quindi più pagine diverse o ritornando anche su pagine già visitate. Tanto è vero che, per esempio, repubblica.it nei primi mesi del 2004 faceva registrare una media di 23.725.000 impression di media settimanale, con una media di 1.024.206 utenti unici alla settimana.

Dopo queste precisazioni torniamo al nostro banner. Una volta convinto il consumatore a cliccare sul banner, egli accede alla home page (la copertina) del sito dell’azienda in questione. Da qui in poi l’operazione comunicazionale assume delle complessità mai affrontate prima con l’advertising tradizionale. Una volta arrivato nel sito il consumatore deve essere stupito, coinvolto, rassicurato, interessato, stimolato, agevolato, deve ritrovarsi in un ambiente che soddisfa le sue esigenze, che risponde a tutte le sue domande e che risolva ogni suo problema.

Il meccanismo psicologico di questa procedura lo conoscono molto bene le grandi catene di distribuzione: con la pubblicità fanno entrare il consumatore nel punto vendita, ma poi sanno perfettamente che la partita deve essere giocata da quando egli varca la porta in poi.

Se il consumatore trova i prodotti che desidera, ne scopre di nuovi, si confronta con commessi e inservienti gentili e disponibili, ha la possibilità di camminare comodamente con il suo carrello in corsie ordinate e ben illuminate e non trova coda alle casse, dove può pagare come vuole, usando indifferentemente contanti, bancomat o carta di credito, probabilmente acquista di più, più volentieri ma soprattutto ritornerà, diventerà un cliente fedele.

La catena svedese Ikea su questi temi è maestra. La loro filosofia prevede la massima permanenza nel punto vendita del consumatore. Più tempo il consumatore rimane nel punto vendita più oggetti vede e più stimoli all’acquisto riceve. Per raggiungere questo risultato nei punti vendita Ikea, in tutto il mondo, esiste lo spazio per i bambini, in cui, sorvegliati da assistenti qualificate, possono giocare o vedere cartoni animati e film, esiste lo spazio ristoro dove poter pranzare o fare uno spuntino con inconsuete pietanze svedesi al giusto prezzo, esiste una tempestiva ed efficiente assistenza al consumatore con molti inservienti dislocati in ogni reparto e identificabili rapidamente e senza possibilità di errore, esistono dispenser che contengono matitine, blocchetti e metri che il consumatore può usare e portarsi a casa come ricordo e qui mi fermo ma potrei proseguire ancora a lungo.

In un sito internet deve accadere la stessa cosa: più a lungo il consumatore rimane all’interno del sito consultando le varie sezioni, le varie pagine e i contenuti proposti, più il sito è da considerare di successo.

Avere tanti accessi, perché magari il messaggio del banner è straordinariamente accattivante, con una permanenza media di pochi secondi è come se in un punto vendita le persone entrassero dalla porta per poi uscirne immediatamente dopo una prima occhiata.

Il problema è che in molti siti delle aziende italiane succede esattamente questo. Molti siti, soprattutto se portatori di una marca famosa, sono indubbiamente visitati, ma per pochi secondi.

Questo succede perché tali siti sono poco accoglienti, tremendamente incompleti, non aggiornati, assolutamente insufficienti e insoddisfacenti rispetto alle esigenze di un frequentatore di internet che, ancora oggi, deve essere considerato un consumatore evoluto e con esigenze ed aspettative alte, o almeno medio-alte. Una realtà di cui molti dirigenti di molte aziende sono perfettamente coscienti.

Nella mia esperienza in internet spesso ho avuto modo di confrontarmi con aziende che, a detta loro, non potevano pianificare dei banner che portassero i consumatori sul loro sito perché faceva, letteralmente schifo. Tanto è vero che per vendere qualche banner ci si dovette inventare un servizio suppletivo che prevedeva la realizzazione di una pagina web promozionale del prodotto o del servizio che l’azienda intendeva pubblicizzare, che si apriva a fronte del clik sul banner. La soluzione mediamente piacque, ma certo il problema rimane tale e quale. D’altro canto, come ho già avuto modo di sottolineare molti siti aziendali sono stati realizzati da “web master” che hanno una dimestichezza con la comunicazione pari a quella che avrebbe un bravissimo salumiere che si propone come chef su una nave da crociera.

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